ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma
ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma

IL Cap. Fago Golfarelli combatte a S.Giovanni con i suoi uomini.

Relazione dell’allora Capitano Sigmund Fago Golfarelli
(ordine cronologico dei fatti da lui personalmente visti e vissuti)
Poco dopo le ore 13 del 10 settembre viene dato il segnale di allarme aereo e i disponibili presenti nella Caserma del Deposito del 2° Granatieri di Sardegna in Piazza Santa Croce in Gerusalemme si recano come prescritto in rifugio. Dopo pochi minuti vengono richiamati per ordine del Colonnello Comandante e si schierano nel cortile della Caserma.
Dietro ordine del Colonnello Comandante il Maggiore Santucci mi dà disposizione di fare armare ed equipaggiare tutti i disponibili, per un pronto impiego a Porta San Giovanni, cosa che viene rapidamente effettuata.
Poco prima delle ore 14 il reparto agli ordini del Maggiore Santucci esce dalla Caserma e percorrendo inquadrato il Viale Carlo Felice si reca a Porta San Giovanni.
L’ordine è d’impedire l’accesso ai tedeschi alla città dalla Porta stessa.
Il reparto di formazione è costituito da elementi raccogliticci molto eterogenei, militari dei servizi sedentari, scritturali, piantoni, cucinieri, guardia scuderie, addetti al Comando, attendenti (qualcuno anche di altra Arma e Corpo), ecc. Ha la forza di circa 100 uomini inquadrati dal sottoscritto e da Ufficiali subalterni, “ad latere” dei quali sono anche i Sottotenenti di prima nomina giunti proprio in quei giorni dalle Scuole Allievi Ufficiali di provenienza.
L’armamento e l’equipaggiamento sono del tutto inadeguati. Armamento di reparto: due soli fucili mitragliatori. Armamento individuale: fucile ’91. Solo alcuni hanno potuto avere in distribuzione una o due bombe a mano. Qualche caricatore a testa. La maggioranza manca di elmetto.
Giunti alla Porta il contingente di uomini viene ripartito tra i vari fornici nonché lungo il muretto che recinge i giardini antistanti la Basilica di San Giovanni in Laterano, poiché, nonostante i vari tentativi effettuati non è stato possibile piazzare né armi né uomini sulle mura della Porta. Il Ten. Pasquazi al comando del picchetto armato della Caserma si dispone con i suoi uomini e con i due fucili mitragliatori sul Piazzale Appio in maniera di sbarrare gli accessi al Piazzale stesso, poiché – mentre in un primo momento si prevede che i tedeschi vengano soltanto dalla Via Appia – subito dopo il nostro arrivo un militare porta-ordini in motocicletta ci avvisa che reparti motocorazzati tedeschi avanzano in direzione di Via Sannio e pertanto si deve essere pronti a far fronte ad un attacco anche da tale provenienza.
In mancanza di sacchetti a terra e di altri mezzi di difesa passiva su ordine del Maggiore Santucci vengono fatti circolare nei fornici dove passano i binari del tram due vetture tramviarie per costituire un ostacolo. Lo schieramento del reparto per quello che posso ricordare è pressappoco il seguente: dalla destra: S.Ten. Gera, S.Ten. Caglio, S.Ten. Odescalci, Ten. Soldi, S.Ten. Armandolini ed altri Ufficiali con i relativi gruppi militari lungo tutte le mura della Porta stessa.
In previsione di un possibile attacco tedesco anche con provenienza Porta Metronia-Ospedale San Giovanni, che prenderebbe alle spalle il nostro schieramento, vengono predisposte le opportune misure per far fronte a tale eventualità. Tutte queste misure vengono adottate nello spazio di pochi minuti in quanto la situazione precipita. Infatti verso le ore 14 una colonna di camionette e di autoblinde nemiche avanza per Via Sannio – preceduta da motomitraglieri – facendo intenso fuoco con le armi automatiche. Immediatamente si accende il combattimento con il picchetto che sopraffatto dalla schiacciante superiorità del fuoco e dei mezzi nemici per non essere materialmente travolto è costretto poco dopo, sotto il violento fuoco nemico, a ripiegare sulla Porta.
C’è un attimo di sosta. Il nemico che ha superato ormai lo schieramento della difesa di Roma sembra interdetto di trovare ancora della resistenza. Sembra anche incerto se gli uomini che hanno sinora fatto fuoco contro erano schierati nella Porta o si siano invece ritirati del tutto.
Due automezzi intanto si attestano all’imboccatura di Via Sannio facendo un intenso fuoco di armi automatiche sulla Porta mentre una motocarrozzetta avente a bordo tre paracadutisti germanici si dirige in velocità verso la Porta facendo fuoco con il fucile mitragliatore di bordo e con una pistola mitragliatrice. Quando arriva a circa una trentina di metri dalla Porta stessa il S.Ten. Odescalchi con sereno sprezzo del pericolo si slancia fuori dalla Porta allo scoperto, in zona intensamente battuta, e getta contro la motocarrozzetta una bomba a mano che cade vicinissima al bersaglio. Un paracadutista cade e rimane a terra mentre gli altri due, feriti, si gettano dalla macchina e di corsa riescono a mettersi al riparo e la macchina ancora in marcia finisce contro il muro a destra della Porta fracassandosi. Si riaccende ora violentissimo il combattimento. Al nutritissimo fuoco delle armi automatiche nemiche ormai concentrato sulla Porta si risponde col fuoco modesto ma efficace di tutte le nostre armi, che – ripeto – sono due soli fucili mitragliatori e fucili 1891.
Malgrado la evidente nettissima inferiorità del nostro volume di fuoco l’accanimento della nostra resistenza è tale che i tedeschi per avanzare aprono il fuoco anche con pezzi anticarro e con lanciabombe.
Il combattimento sta per raggiungere ora il suo culmine e purtroppo il suo logico epilogo. Molti granatieri sono colpiti. Intorno a me anche alcuni ufficiali sono feriti, tra questi un giovane S. Tenente che ferito alla gamba sarà più tardi fatto prigioniero. Alcuni feriti vengono soccorsi dai propri compagni e vengono portati a braccia in zona immediatamente retrostante meno battuta. Altri giacciono per terra nel proprio sangue.
Accompagnati dal fuoco intenso delle loro armi pesanti e automatiche i paracadutisti tedeschi scendono dagli automezzi e si avvicinano sfruttando i numerosissimi angoli morti che favoriscono il loro attacco.
Portatisi ormai a distanza ravvicinatissima si da luogo ad un violento combattimento con le bombe a mano. La resistenza sta ormai per terminare, perché le poche bombe e le scarse munizioni sono quasi tutte esaurite.
Intanto alcuni paracadutisti approfittando delle vetture tramviarie che servono ora a loro di riparo s’infiltrano nella Porta incuneandosi quindi tra i nostri uomini dove ormai solo alcuni elementi isolati ancora armati reagiscono facendo fuoco a bruciapelo sugli assalitori.
Mentre il nemico irrompe nei fornici della Porta il Maggiore Santucci da l’ordine di ripiegare sulla nostra Caserma di S. Croce in Gerusalemme. Tale ordine non mi giunge poiché data la particolare situazione dello schieramento sono rimasto isolato con un pugno d’uomini pressoché disarmati tra due fornici intensamente battuti. Ciononostante – poco dopo – vedo che i nemici dilagano ormai intorno a noi e che già alcuni Ufficiali e granatieri posti sulla estrema destra dello schieramento, al di là della vettura tramviaria, vengono disarmati e fatti prigionieri. Di mia iniziativa dò ordine ad alcuni granatieri e ad un sottufficiale che sono vicini a me di raccogliere i più prossimi feriti, uno dei quali non potendo camminare viene preso sulle spalle dal sergente, e continuando a fare fuoco a distanze ravvicinatissime riusciamo ad iniziare il ripiegamento nei giardini di Viale Carlo Felice, poggiando alle mura, accompagnati dal fuoco intensissimo delle armi nemiche e dal lancio di numerose bombe a mano.
Giunti all’ingresso dell’autorimessa dell’ ATAC che dà sui giardini di Viale Carlo Felice incontriamo un nostro S. Tenente che sta smontando un fucile mitragliatore (uno dei due del picchetto) che si era inceppato e per il quale aveva ancora qualche caricatore. Penso allora di tentare un’ulteriore difesa di Viale Carlo Felice allo scopo di ritardare sino all’ultimo colpo l’avanzata da questa strada verso la Caserma.
I feriti si ritirano al riparo nell’autorimessa poiché allo scoperto dove siamo giungono intorno a noi colpi di granata e raffiche di mitragliatrice dalle armi ormai dislocate sulla Piazza San Giovanni.
Mentre il giovane subalterno ripara l’arma, io con i granatieri che sono con me e con il signor Brunelli – un borghese che volontariamente e valorosamente ha partecipato alla nostra difesa di Porta San Giovanni […] – sfondiamo, non senza una certa difficoltà, la porta di una abitazione che è nelle mura, sperando di potere poi dall’interno salire sulle mura stesse per piazzare il fucile mitragliatore e potere quindi efficacemente, con ampio campo di vista e tiro, battere dall’alto e d’infilata il Viale Carlo Felice. Purtroppo, sfondata la robusta porta ferrata ci troviamo in una stanza vuota e disabitata che non ha alcuna comunicazione interna con la parte superiore delle mura. Ci poniamo perciò a terra dietro una specie di terrapieno (che è formato dalla scala che attraverso un fornice delle mura scende dai giardini di Viale Carlo Felice, dinanzi all’ingresso dell’autorimessa dell’ATAC, al Viale Castrense) e continuiamo a fare fuoco sulla colonna tedesca che da Porta San Giovanni attraversando la Piazza prosegue in Via Conte Verde. Contrariamente a quanto prevedevo nessuno dei mezzi germanici viene per Viale Carlo Felice risultando così evidente che essi hanno avuto ordine di penetrare in forze nel centro della città secondo un piano preordinato senza preoccuparsi eccessivamente di eventuali attacchi laterali.
Man mano che i mezzi passano, da bordo si risponde alle nostre rade raffiche con una valanga di fuoco tirata a casaccio nella nostra direzione. Poco tempo dopo, ed ancora i mezzi nemici continuano a sfilare, avendo terminato i pochi caricatori del mitragliatore e le ancor meno cartucce di fucile che erano rimaste, dò ordine di ripiegare sulla Caserma, attraversando i capannoni dell’ATAC dove ritroviamo i feriti che avevo lì mandato in precedenza a ricoverarsi e che hanno avuto calda, fraterna accoglienza dal personale di guardia dell’autorimessa dell’Azienda che ha prestato loro le prime sommarie cure.
Affacciatomi alla porta dell’autorimessa che da su Piazza Santa Croce vedo passare dei mezzi tedeschi isolati che, sparando all’impazzata in tutti i sensi e anche sui rarissimi passanti che cercano riparo nei portoni, provenienti dalla Porta che da Viale Castrense conduce nella Piazza Santa Croce si dirigono correndo per Via Eleniana verso Porta Maggiore.
La Caserma chiusa sembrerebbe disabitata e deserta se ogni tanto da questa non partissero sporadici colpi di fucileria in direzione di Viale Carlo Felice che stranamente contrastano con i cupi colpi in arrivo dei mortai tedeschi e con le raffiche di mitragliatrice che sibilano sulla Piazza Santa Croce provenienti da Piazza San Giovanni in Laterano.
Decido di rientrare in Caserma per ricoverare i feriti e per prendere ordini. Nei brevi istanti in cui il fuoco diminuisce il ritmo della sua intensità ad uno ad uno di corsa attraversiamo la Piazza Santa Croce e rientriamo in Caserma dal cancello della porta carraia.
Sono le 16 passate.

«I tedeschi salivano da via Sannio Noi eravamo là, con i moschetti».

8 SETTEMBRE 1943 , parla uno degli ultimi testimoni, Sigmund Fago Golfarelli  «Uscimmo dalla caserma e ci recammo a Porta S. Giovanni» «Il reparto era di un centinaio di elementi raccogliticci: cucinieri, guardie, attendenti, sottotenenti di prima nomina, militari dei servizi sedentari».

 

Poco prima delle ore 14 del 10 settembre 1943, il reparto del Deposito del 2° Granatieri di Sardegna esce dalla caserma di piazza Santa Croce in Gerusalemme e percorrendo da me inquadrato il viale Carlo Felice, si reca a Porta San Giovanni. Il reparto è costituito da un centinaio di elementi eterogenei, raccogliticci: cucinieri, guardie, attendenti, sottotenenti di prima nomina appena arrivati dalle scuole, militari dei servizi sedentari.

L'armamento è risibile: il reparto dispone di due mitragliatori e la dotazione individuale è costituita dal fucile 1991 e da qualche caricatore.

Quasi nessuno ha un elmetto e solo alcuni, una o due bombe a mano. Verso le ore 14 vediamo una colonna di autoblindo, camionette e motomitragliatori avanzare da via Sannio. Incomincia il combattimento». Per due ore l'armatissima Seconda divisione corazzata paracadutista Hermann Göring rimase bloccata a causa d'un pugno di uomini che smise di difendere la città solo perché non aveva più munizioni.

Mentre parla, seduto nel salotto del suo appartamento romano sulla Nomentana, gli occhi leggermente chiusi perché sta guardando nella sua memoria la scena dello scontro di San Giovanni, l'allora capitano Sigmund Fago Golfarelli - Sigmund perché suo padre amava la musica di Wagner - quasi non si muove. Era lui quel giorno a inquadrare i granatieri che resistevano ai tedeschi, a caricarsi assieme ai suoi soldati i feriti, sempre sparando e lanciando bombe a mano, a ripiegare verso un'autorimessa di viale Castrense per continuare a mitragliare la colonna nazista fino all'esaurimento dei caricatori e delle cartucce di fucile. Un fatto d'armi poco noto della difesa di Roma nei due giorni successivi l'8 settembre.

Ferito in battaglia nelle campagne macedoni, condannato alla fucilazione dai tedeschi, novant'anni precisi portati con la schiena dritta e la memoria lunga, Fago Golfarelli oggi è uno dei pochissimi generali di Brigata nel R.O. «Ruolo d'onore - chiarisce - Un titolo onorifico. Nelle questioni militari bisogna essere precisi. La battaglia finì verso le quattro del pomeriggio. Andai in caserma a telefonare a mia moglie per dirle che avevo avuto una scaramuccia con i tedeschi e che ero vivo. In quel momento arriva una loro camionetta, mi riconoscono e mi arrestano. Mi mettono sul parafanghi, proprio sul parafanghi, di una Lancia Ardea, era difficile stare aggrappati, dentro la macchina c'erano quattro paracadutisti di cui tre vivi e uno morto, e si mettono a girare per Roma, fino a Santa Maria Maggiore, fino alla stazione, mentre la gente ci sparava dalle finestre. Io stavo aggrappato alla macchina e pensavo: dopo tre anni e mezzo di guerra, qui va a finire che mi ammazzano attaccato a un parafanghi».

Parla piano, il vecchio capitano. È vestito di chiaro, un completo estivo beige, una cravatta regimental su una camicia bianca di cotone leggero e un fazzoletto bianco nel taschino. Il volto è sottile, da antico gentiluomo italiano. Porta le decorazioni, la medaglia di bronzo al valor militare e le due croci di guerra. Ha le gambe allungate su una poltrona, perché ogni tanto la colonna vertebrale gli dà fastidio dopo il ferimento in Macedonia.

«Alla fine mi portarono a Villa Wolkonski che era sede dell'ambasciata tedesca e divenne il comando militare delle forze di occupazione del generale Stahel. Mi condannarono alla fucilazione. Noi prigionieri eravamo sorvegliati da una sentinella che ci guardava giorno e notte e ogni tanto ci sparava raffiche di mitra sopra la testa urlando: grenadieren traditoren».

Il generale di brigata e anche conte Golfarelli - «Ma non da conte ho difeso Roma, bensì da signor Fago Golfarelli» - prende trattati di storia e pubblicazioni di uffici militari. Non gli servono a ricordare meglio, ma a dare forza di documentazione alle sue memorie. «Arrivò un ufficiale tedesco e ci mettemmo a parlare francese. Disse che per la loro legge ero un traditore e dovevo essere passato per le armi. Ma si rammaricò che un ufficiale quale ero fosse costretto a rimanere in piedi: in ambasciata non c'era più una sedia a causa di una rapina fatta l'8 settembre. Allora tornò con un cassetto della sua scrivania e me l'offrì per sedermi. Mi volevano fucilare, però mi facevano accomodare. Strana la vita, vero?».

Sufficientemente strana per salvare il prigioniero grazie a un diplomatico tedesco che non sopportava di vedere messo a morte un ufficiale che aveva combattuto in divisa e sotto ordini superiori. Nascose il difensore di Porta San Giovanni nella stanza accanto a quella del generale Stahel. «Poi il 12 settembre arrivò la notizia che il generale Calvi di Bergolo aveva firmato la resa di Roma e io fui liberato».

E poi? E poi il capitano ebbe la tubercolosi, riuscì a guarire, continuò ad attraversare il Novecento, diventò dirigente dell'Enit (il vecchio Ente nazionale italiano per il turismo), fece carriera brillante, tirò su due figli assieme alla moglie. E poi si torna indietro di nuovo, perché la memoria ha il gran pregio di saper funzionare come una moviola cinematografica, su e giù per i giorni quando e come uno vuole: «Mi ricordo in Africa, i mitraglieri americani neri completamente sbronzi che dagli aerei sparavano alle galline. Ricordo il bombardamento di San Lorenzo. Per un caso assurdo, una bomba aveva distrutto di un palazzo solo la facciata e si vedevano dalla strada tutti gli appartamenti con la mobilia, i bagni, le cucine, le camere da letto, come una casa di bambole. Mi ricordo».

Tratto da La Stampa - Roma

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Mostra "Vite di IMI".

E' aperta la mostra "Vite di IMI - Internati Militari Italiani". Si tratta di un'esposizione storico-didattica tesa ad illustrare la vita degli oltre 600mila militari italiani deportati e internati nei lager tedeschi e della loro “Resistenza senza armi”.

Tutte le info sul sito: http://www.anrp.it/mostra/01mostra.html

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