RAFFAELE PERSICHETTI
………….Era ancora giorno chiaro quando, al centro di Roma, molte persone
presero a uscire dai cinema (avevano visto La falena, vietata ai minori, o Oggi incomincia la vita, con Sonja Wigert e Stuze Lagerwall): notarono l'insolita animazione e capirono al
volo. Quelli, invece, che erano entrati alle 18, al teatro Valle, per vedere una novità di Michele Galdieri, È ancora possibile, che Paola Borboni e Nuto Navarrini recitavano, a favore dei
sinistrati, furono raggiunti dalla notizia ufficiale sul finire dello spettacolo.
L'annuncio fu dato dalla radio, con una trasmissione speciale, prima del consueto notiziario delle 20: alle 19,43. Milioni di italiani erano già da un pezzo all'ascolto. Giovan Battista Arista, lo
speaker principe dell'EIAR rammenta che, verso le 19,35, fu convocato d'urgenza all'auditorio "O," quello riservato alle personalità, e vi trovò Badoglio, in abito grigio, con il cappello floscio
sulle ginocchia. Gli faceva compagnia il figlio Mario e, fuori della porta, erano due agenti in borghese. Ad Arista sembra di aver trascorso con i due Badoglio diversi minuti imbarazzanti, in attesa
che i tecnici effettuassero i relais di tuttelestazioni.
Nel frattempo, il programma pomeridiano alternava marcette militari e canzonette. Quando tutto fu pronto e Badoglio s'era messo davanti al microfono per leggere il proclama, l'operatore in camice
bianco, nell'apposita cabina, interruppe, non appena una pausa musicale glielo consenti, l'audizione del disco di una canzone allora in voga, in cui entrava, in qualche modo, anche il motivo del
settembre: Una strada nel bosco.
Arista avvertì gli ascoltatori, poi Badoglio pronunciò, quasi in italiano, il proclama (che fu automaticamente registrato) e si allontanò in fretta dagli uffici di via Asiago.
Poco dopo, il suo disco fu fatto girare, a intervalli regolari. E a nessuno poté venire in mente, in quelle ore di solennità e di emozione, che il padrone della voce si accingeva a imboscarsi,
prendendo l'unica strada rimasta libera intorno a Roma.
Era naturale e inevitabile: un'esplosione di gioia percorse tutta l'Italia; si improvvisarono cortei, discorsi; sui monti si accesero falò; ci furono reparti della contraerea che si misero a sparare
all'impazzata proiettili traccianti sembravano fuochi d'artificio.
Un piccolo presidio della milizia, posto di guardia alla diga di Fontanaluccia, nell'alto Appennino modenese, festeggiò l'evento con una gran mangiata; poi si sciolse, lasciando armi e divise. Il
guardiafili della Società Emiliana per gli Esercizi Elettrici Sante Passeri raccolse le armi e le nascose in una cava attigua. Non passò molto che tornarono buone.
Anche da molte caserme cominciò l'esodo dei soldati. La mattina del 9 si videro in tutte le città, nei centri minori, sulle strade di periferia, alle stazioni gruppi di soldati che, con tascapani,
sacchi, vecchie valige in ispalla, qualcuno senza niente, tornavano a casa.
Uno dei tanti che si trovarono in viaggio tra l'8 e il 9, Fausto Coen, che veniva a Roma da Mantova, rammenta che, a ogni fermata del treno, salivano militari di tutte le armi; e presto il convoglio
fu colmo; molti si arrampicarono sui tetti dei vagoni. Sul treno c'erano anche ufficiali e carabinieri: pare che trovassero, anche loro, naturale che i soldati si fossero messi in congedo, senza
attendere le solite formalità.
Un racconto analogo e quello di Marcello Soleri, che trascorse le giornate dell'8 e del 9 in viaggio, sulla linea tirrenica: "Giovedí 9," dice, "ebbi alla Spezia il primo penoso spettacolo dello
sbandamento militare. I marinai dell'Arsenale, messi in libertà dai loro comandanti, affollavano la stazione, carichi di fagotti, in attesa dei treni."
Anche Giovanni Gronchi fu colto dall'annuncio dell'armistizio in treno. Era partito poco prima da Milano, per raggiungere la moglie Carla e il figlio maggiore, che aveva allora due anni, a Tradate.
Due settimane prima era stato a Roma, per incontrare alcuni amici del movimento cattolico e, in quella occasione, aveva avuto un colloquio, poco confortante con Badoglio. Il treno era un diretto e,
da Milano a Tradate, non fece soste. Ma, nelle stazioni e anche nelle campagne, Gronchi vide gruppi di persone tripudianti, sventolio di bandiere, soldati che attendevano sulle banchine, con fagotti
e valige, e i civili che si rallegravano con loro. Anche questo non lo incoraggiò. Egli aveva progettato, con altri antifascisti del Nord, un piano di resistenza o di guerriglia nel Trentino, per
l'attuazione del quale aveva appuntamento allo Stato maggiore dell'esercito con il gen. Zanussi.
La sera dell'8, in piazzale Donatello, a Firenze, la folla sostò fino a tardi. E, d'un tratto - narra Maria Luisa Guaita - passò un gruppo di soldati bolognesi, decisi ad arrivare a casa magari a
piedi. Si erano tolti le mostrine. Raccontavano che il loro tenente aveva detto: "Curagg, fieiui, scapúma!" E si era vestito in borghese.
Ci sembra opportuno avvertire il lettore che nessuno degli ufficiali e dei soldati che cercavano di raggiungere le proprie case aveva l'intenzione o la consapevolezza di disertare. Gli é che
l'eventualità di dovere, adesso, fronteggiare i tedeschi non venne in mente subito a tutti: forse alcuni non vollero pensarci; molti ufficiali, poi, erano disorientati e avviliti; e, in genere, nelle
prime ore dopo l'annuncio dell'armistizio, i piú pensarono che, stavolta, la guerra fosse finita davvero.
D'altro canto - lo abbiamo già detto - i più erano ancora convinti, l'8 settembre, che le autorità le quali avevano finalmente realizzato l'armistizio avessero considerato e valutato tutte le
eventualità conseguenti e, in ogni caso, predisposto ogni misura. L'opinione piú diffusa era che fosse stata realizzata un'intesa anche con i tedeschi, per il loro pacifico ritiro dalla Penisola. E
che, in pari tempo, gli angloamericani sarebbero sbarcati altrettanto pacificamente, per presidiare talune città e taluni centri strategici piú importanti.
Il fatto stesso che, dopo il proclama delle 19,45, null'altro venisse comunicato dalla radio per orientare o mettere sull'avviso la massa degli italiani legittimava la convinzione che tutto fosse
stato disposto a modo, in alto loco. Evidentemente, la gente e i soldati si dissero, se il governo non impartisce altri ordini, non dà ammonimenti, non notifica neppure qualcuna di quelle misure di
emergenza che, nei 45 giorni precedenti, si erano susseguite con bandi e ordinanze anche gravissimi, era segno che aveva calcolato le sue mosse con grande precisione. Ci valiamo ancora della
testimonianza di Maria Luisa Guaita, che riferisce una conversazione familiare, di quella notte sul 9 settembre. "Forse, gli Alleati sbarcheranno a Livorno stanotte," aveva detto il padre. "Gli
Alleati sbarcheranno a Viareggio, Genova, Venezia: taglieranno la strada ai tedeschi," disse uno della strada. E, poco dopo, a casa dell'amica Rita: "È la guerra ai tedeschi, finalmente," disse Rita.
"E chi la farà la guerra ai tedeschi, con quali armi?" disse la madre di Rita. E Rita disse: "Ce le daranno gli Alleati: Badoglio avrà tutto organizzato." In quel momento giunse Edoardo e raccontò
che le pendici del Montemorello erano tutte illuminate dei falò che avevano acceso i contadini. "E i tedeschi?" gli chiesero. "Neppure l'ombra," rispose.
Ecco: in quelle prime ore, non si vide neppure l'ombra di un tedesco; e molti ritennero che si tenessero nei loro acquartieramenti, in attesa di partire verso il Nord. E dove, l'indomani o ancora per
uno o due giorni, la situazione rimase immutata, la gente continuò a nutrire fiducia nella preveggenza dei capi, dato che non sapeva ancora che essi non erano piú a Roma.
Si determinarono, anzi, situazioni equivoche e paradossali che dicono come, a volte, la verità stenti a manifestarsi anche a chi l'ha sotto gli occhi.
Innanzi tutto, i normali canali di informazione (la radio, la stampa, l'agenzia ufficiale "Stefani ") seguitarono fino al 10, fino all'11 a dissimulare il reale stato delle cose, riuscendo in tale
intento ovunque e, naturalmente, le loro reticenti o false notizie non vennero a trovarsi in contrasto con la realtà. Fino al 10 pomeriggio, ad esempio, i giornali di varie città, Roma compresa,
sciorinavano ancora un notiziario affatto anodino e, soprattutto, per quel che diceva o che taceva, rassicurante.
E - parrà incredibile oggi -, proprio a Roma, dove pure la notizia della fuga dei capi militari si era diffusa prima che altrove e dove, nei dintorni e fino alle sue soglie, si svolse l'unica
battaglia manovrata di quel periodo, con forze ingenti, una gran parte della popolazione continuò a nutrir fiducia (molti non si accorsero neppure che si combatteva), persuasa che la prosecuzione
quasi normale del ritmo della vita cittadina dipendesse dal fatto che tutto restava sotto il pieno controllo delle autorità.
I tram, infatti, salvo una breve interruzione nella mattinata del 10, funzionarono come gli altri giorni; ai crocicchi, le guardie regolavano il traffico, modesto invero perché circolavano solo
automezzi militari o ministeriali; fu notata, per 48 ore, l'assenza dei carabinieri, che però riapparvero, non molti, già la sera del 10, insieme a pattuglie della P.S. o della PAI; l'11 furono visti
transitare per le vie del centro reparti di granatieri e ci fu chi non s'avvide che tornavano dall'aver sostenuto, per tre giorni, una battaglia sanguinosa; la circostanza che, in diverse caserme, si
vedessero ancora entrare e uscire soldati confermò in molti la convinzione che non ci fosse stata necessità di impiegarli per tenere a bada i tedeschi,che ripiegavano verso Nord. E ci fu perfino chi,
l'alba del 12, sentendo marciare per le strade soldati che, dalle voci, si capiva che erano stranieri, pensò si trattasse dei primi anglo-americani. Equivoci di questo tipo, che costituiscono solo
alcuni aspetti, fuggevoli e paradossali, di quelle giornate rivelano quanto poco la maggioranza degli italiani vi giungesse consapevole e preparata; e, per essere piú esatti, come irresponsabilmente
i capi politici e militari l'avessero tenuta all'oscuro, per poi abbandonare Paese ed esercito nel piú completo disorientamento. Ovunque, infatti, la situazione precipitò subito e in modo da non
lasciare dubbi, la generalità degli italiani fu colta alla sprovvista; e quando vi furono reazioni, dove si tentò in qualche modo di salvaguardare quei valori e quelle istituzioni che i diretti
rappresentanti dello Stato avevano già deciso di lasciare che si disfacessero, ciò avvenne per opera di singoli cittadini o di gruppi di patrioti e di militari, senza che vi fossero ordini o solo
predisposizioni dal centro. E fu su questo terreno (un terreno dove, il piú delle volte, si lascia la vita) che, anche indipendentemente dal comportamento dei massimi capi - non ancora noto -, si
verificò, sintomatico, il contrasto tra le forze popolari e le autorità costituite: tra alcune migliaia di uomini semplici, ignoti fino a quel giorno e, in gran parte, rimasti ignoti anche dopo, che
vennero ad assumere spontaneamente, quasi senza accorgersene (molti davvero senza capirlo), in una situazione disperata, la genuina rappresentanza dell'Italia e coloro che, da 45 giorni o da venti
anni (o anche da ottanta anni), con titoli altisonanti, galloni, pennacchi, scorte d'onore e squilli di tromba, avevano simulato di rappresentarla; e, adesso, l'avevano tradita.
Non furono generali o prefetti a tentare di tenere in pugno la situazione o a dire le parole che andavano dette o a fare le cose semplici, elementari - ma rischiose - ché occorreva fare. E neppure
furono (se si deve dir tutto) uomini politici esperti, in antica fama di antifascismo.
Fu un giovane avvocato che, mentre i generali si mettevano in borghese e davano agli alpini la libera uscita per sempre, tenne un breve discorso dal palazzo comunale di Cuneo, per spiegare che la
guerra sarebbe "continuata" contro i tedeschi; e bisognava affrontarla subito: si chiamava Duccio Galimberti e mori in quella guerra.
Fu un vecchio socialista, già vice-sindaco di Molinella nel '20, poi incarcerato e confinato, Giuseppe Bentivogli (che nel '43 gestiva un negozio di pezzi di ricambio per biciclette), a prendere la
parola, dal balcone del municipio di Molinella, la mattina del 9 settembre, per dire: "I socialisti non possono essere contenti che la patria é umiliata con la capitolazione. Non si può essere
socialisti e compiacersi che l'esercito si stia dissolvendo, perché quando manca l'esercito non c'è più spina dorsale in una nazione..."
E, siccome era venuto meno l'esercito, anche Giuseppe Bentivogli, che aveva perduto l'unico figlio in Russia, si fece partigiano e combatté contro i tedeschi. Cadde a Bologna, il 22 Aprile 1945. Fu
un ingegnere, Gino Tommasi, che tentò ad Ancona di organizzare la difesa della città, in accordo con il comandante del presidio, il quale poi stipulò la resa con i tedeschi, lasciando i patrioti
anconitani allo sbaraglio, fuggiaschi e partigiani; e Tommasi finì a Mathausen. E fu l'avvocato Sante Tani che compì lo stesso tentativo ad Arezzo. E, quando il comandante di quel presidio si arrese,
dovette darsi alla macchia, dirigere una banda partigiana nel Casentino e, catturato, venne massacrato in una cella del carcere della sua città. E la stessa esperienza si ripeté in tante altre città,
da Torino a Milano a Udine a Modena a Reggio Emilia a Livorno, ecc., dove sempre tra 1'8 e il 9, gruppi di patrioti chiesero le armi ai comandanti dei presídi e sempre furono lasciati soli.
E, a Nola, furono un sergente e un contadino, Umberto Mercogliano e Giuseppe Napoletano, che il 10 diedero il via a una disperata insurrezione popolare; a Teramo, furono professionisti, contadini,
soldati sbandati, un capitano dei carabinieri che, in contrasto con il comandante del presidio, riuscirono ad organizzare, dal 12 al 27 settembre, un primo episodio di resistenza che culminò in una
vera battaglia, con centinaia di morti e di feriti, nel corso della quale il comandante del reparto tedesco attaccante fu catturato e fucilato. A L'Aquila, furono nove studenti che si fecero
fucilare, il 22 settembre, per essere stati catturati, dopo breve combattimento, con le armi in pugno, francotiratori.
A Bari, il porto fu riconquistato ai tedeschi il 9 settembre, da un pugno di valorosi, tra i quali erano un generale, Nicola Bellomo (che diresse l'azione per caso, perché passava da quelle parti, e
poi fu fucilato, a seguito di un non chiaro processo, dagli inglesi) e soldati, carabinieri, militi, alcuni portuali. A Gaeta, combatterono i marinai, di propria iniziativa. Sulla Futa, gli alpini. A
Piombino, a Orbetello, all'Elba militari e civili si trovarono uniti, senza nessuna intesa, in una disperata resistenza locale, mentre le armate e le divisioni cedevano.
Altrove, come a Buccoli, a La Spezia, a Foggia, a Potenza, in un aeroporto della Lombardia, generali e colonnelli, non potendo far altro, si lasciarono uccidere o si suicidarono. Rammenteremo alcuni
di questi episodi (e Dio sa quanti ce ne dovettero essere, che non abbiamo potuto individuare) nei capitoli che seguono.
Ma il peggio é che non furono i loro protagonisti a scrivere la storia. La storia la scrissero altri, quelli che ebbero l'avvertenza di preservarsi per poterla scrivere, valendosi anche del sangue
degli immolati, per renderla piú colorita.
Noi non abbiamo la pretesa di prestare voce a coloro che l'ebbero spenta tra 1'8 e il 15 settembre, per riscrivere la storia come essi avrebbero potuto farlo. Ma la presunzione di saperli
interpretare, in contrasto con quanto hanno poi detto o scritto, nelle loro false testimonianze, quelli i quali non ebbero altra preoccupazione che di sopravvivere, questa si, l'abbiamo; la
rivendichiamo, anzi. Perché - e anche questa é una cosa che non abbiamo timore a dir chiara e con orgoglio ci sentiamo piú vicini a loro, piú simili a loro di quanto non siamo, non solo distanti, ma
avversari e accusatori di quelli che hanno mistificato la storia, allo scopo di riuscire a non rendere conto del perché si premurarono solo di salvare la propria pelle. Il compito é facile, in fondo.
Si tratta soltanto di riesaminare, da un lato, le testimonianze dei falsari, con coscienza serena, sgombra da prevenzioni; e, dall'altro, di interpretare l'animo di coloro che non ebbero piú modo di
testimoniare, ponendosi nei loro panni di uomini semplici, schietti, incapaci di fare prima il calcolo e poi l'umile gesto che la circostanza richiede. Quali furono migliaia e avrebbero potuto essere
milioni, nel settembre '43; e quali sono, ancora oggi, malgrado gli anni passati, le delusioni patite, i cattivi esempi ricevuti, la maggior parte degli italiani.
Non occorre, per questo ultimo compito, ristabilire ciò che provò e ciò che fece ciascuno di codeste migliaia di uomini, nel momento in cui si impegnò, senza averlo progettato prima, e nelle poche
ore in cui seguitò a battersi, senza che altri ve lo costringesse, persuaso d'essere un protagonista marginale, nel quadro di un moto vastissimo e spontaneo che, tuttavia, chi aveva in pugno le
redini del comando e sul capo le responsabilità supreme avrebbe controllato e diretto. Basta farlo per uno. E noi crediamo di poterlo fare per uno cui fummo più vicini e la cui vicenda culminante,
nei giorni del 9 e 10 Settembre, ci pare emblematica. Tanto é vero che della sua figura, essendo egli stato a contatto con diversi gruppi antifascisti, si appropriarono un po' tutti (azionisti,
cattolici, comunisti, liberali), celebrandone subito il sacrificio nei loro giornali clandestini. E poi accadde perfino che due lugubri signori, in una solenne cerimonia a porta San Paolo, gli
conferirono la Medaglia d'Oro alla memoria, forse perché Raffaele Persichetti si era fatto uccidere li, nel medesimo istante - le 15,50 del 10 settembre '43 - in cui quei signori, dopo aver steso 24
ore prima, in un appartamento di via Adda, a Roma, un appello in cui incitavano gli italiani alla lotta, si trovavano nello studio del maresciallo Caviglia a esprimere a lui e ad alcuni generali il
proprio assenso per la resa di Roma ai tedeschi; e, in seguito, dopo lunghi mesi di vita monastica, avevano assunto, nel giugno '44, le cariche di presidente del Consiglio e di ministro della Guerra
della "nuova" Italia: gli onorevoli Ivanoe Bonomi e Alessandro Casati. Raffaele Persichetti era divenuto antifascista, come tanti giovani della sua età, ai tempi della guerra di Spagna; nel maggio
'40, insegnava storia dell'arte al liceo Visconti e, avendo rifiutato di far partecipare i suoi alunni a una manifestazione interventista, subí l'aggressione e la bastonatura di una squadra di
fascisti; nel '41 venne richiamato alle armi e, sebbene con grande amarezza, fece il proprio dovere, come sottotenente dei granatieri, in Grecia; fu ferito alla testa e tornò, invalido, a Roma, dove
riprese la sua attività di studioso e di antifascista.
L'8 settembre lo colse che era appena rientrato da una missione a Genova e Milano, in procinto di ripartire. Non sapeva molto - come tutti, allora - di quello che stava accadendo nelle alte sfere
militari e nell'empireo della grande politica. Rientrò, la sera dell'8, molto presto a casa, in corso Rinascimento, e si ritirò subito, per riposare, nella sua spoglia stanza di studente. Non seppe
neppure dell'annuncio dell'armistizio.
L'indomani, di buon'ora, ebbe notizie di quanto era avvenuto, ma assai vaghe e confuse. Alle 9 si recò in casa di Mario Cingolani, per concordare il nuovo viaggio che doveva compiere al Nord. Poi si
incontro con alcuni amici di chi scrive in una tipografia di via Flaminia, dove era in corso di stampa un giornale clandestino. Le notizie politiche e militari e quelle stesse sulla battaglia che si
stava svolgendo nei pressi di Roma seguitavano ad essere incerte e contraddittorie: tutti coloro che videro Persichetti quella mattina rammentano che nessuno intuiva la gravità della
situazione.
Il pomeriggio del 9, Raffaele si trattenne ancora in casa, a buttar giú alcuni appunti, per un discorso che avrebbe dovuto tenere l'indomani. Non si sa come abbia trascorso il resto del pomeriggio:
probabilmente vide una persona che gli era molto cara. La sera - le notizie erano divenute più allarmanti - stimò opportuno recarsi in casa di un suo cognato, il giornalista svedese Gunnar Kumlien,
in via Margutta, dove trascorse la notte. Di li si mise in contatto telefonico con diversi amici, dando loro appuntamento per l'indomani mattina in vari punti della città, perché vi si trovassero con
quanti piú altri possibile e con quante più armi potevano racimolare. Per prima cosa, l'indomani mattina, il ten. Persichetti si portò al deposito del suo reggimento, il l° granatieri, e
ebbe notizia che la situazione militare, attorno a Roma, s'era molto aggravata: proprio i granatieri contendevano il passo ai tedeschi dalle parti della Cecchignola e alcuni elementi avevano già
dovuto ripiegare verso la Basilica di S. Paolo. Raffaele si avviò verso questa località, con un altro sottotenente di complemento, a piedi. Piovigginava. Passò nei pressi del Colosseo, dove già c'era
atmosfera di retrovia. Percorse il viale Aventino : truppe con carriaggi e artiglierie attendevano di essere impiegate: quello spettacolo gli diede la sensazione dell'imponenza della battaglia. Ma
ancora non sapeva che la battaglia si svolgeva già nella zona di San Paolo.
Giunse, con un gruppo di civili armati, all'altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, col. Mario Di Pierro, che dirigeva i
combattimenti.Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e, cosi, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri.
Poco lontano di li, sulla via Ostiense riconobbe il ten. col. Enrico Nisco, che comandava un gruppo di dragoni del "Genova Cavalleria," cui s'erano affiancati alcuni carri leggeri e alcune camionette
dell'8° "Lancieri Montebello," al comando del cap. Camillo Sabatini.
Non piú di una trentina di cavalleggeri, comandati dal cap. Vannetti e dal ten. Guglielmi, difendevano accanitamente una posizione avanzata sullo stradone privo di ripari, press'a poco all'altezza
dei mercati generali; e, dai grandi caseggiati, donne e popolani scendevano a tirar via i feriti e a metterli al coperto nei portoni.
Piú indietro, un altro plotone di cavalleggeri, al comando del ten. Sanjust, teneva le alture di San Saba, mescolato a un gruppo di civili e, sulla destra della porta di San Paolo, alcune decine di
granatieri e di civili, comandati dal cap. Gasparri, sbarravano le strade del quartiere Testaccio. Un po' dopo le 13 la battaglia si intensificò: l'artiglieria tedesca prese a picchiare duro e alcuni
elementi della divisione paracadutisti cominciarono ad avanzare sulla Ostiense, addossati alle case, fino a che la fucileria italiana li costrinse ad arretrare. Cadde, in quella scaramuccia, il ten.
Guglielmi, colpito da una granata. Il magg. Tallarico e alcuni civili lo portarono, insieme ad altri feriti, nel portone di uno stabile. Accorsero subito le donne della casa, con pentole d'acqua
calda, strisce di lenzuola, coperte, alcool, zucchero.
Nella breve pausa che segui, Raffaele telefonò all'amico Tommaso Carini, per raccomandargli di avviare sul posto altri compagni armati. Telefonò dal bar che é all'angola del viale Aventino e li
Carini avrebbe richiamato: Raffaele lasciò a uno dei camerieri una piantina della zona, con l'indicazione del luogo di raccolta. Poi tornò con i suoi uomini: saranno state le 14.
A quel punto arrivarono, unendosi agli altri difensori di porta San Paolo, i superstiti di un avamposto della "Granatieri" che avevano dovuto ripiegare, con alcuni mezzi corazzati. I mortai tedeschi
aumentarono e aggiustarono i tiri: ora i colpi cadevano di là dalle mura. A poca distanza da Raffaele furono colpiti, tra gli altri, il magg. Passeri e il cap. Sabatini del "Montebello"; numerose
granate investirono il viale Giotto: una trentina di granatieri e una dozzina di civili furono messi fuori combattimento. Gli androni delle case vicine si riempirono di feriti e di morenti.
Alle 14,30, i quadrupedi del "Genova Cavalleria" vennero fatti spostare sulla via Marmorata, al riparo dai colpi; e il col. Nisco, con gli uomini appiedati, prese posizione nei pressi del muro che
circonda la stazione Ostiense. In un punto isolato e scoperto il cap. Vannetti, già ferito a un ginocchio, continuò a brandeggiare una mitragliatrice, insieme al dragone Cavalli, fino a che furono
abbattuti entrambi da una raffica. Il dragone Panzacchi tentò di raggiungere l'arma e cadde accanto a loro.
Anche Raffaele, con alcuni granatieri, fece una sortita per trarre in salvo alcuni feriti. Poi tornò ad appostarsi e a dirigere il fuoco della fucileria contro i paracadutisti tedeschi, che
avanzavano a sbalzi di dieci, cinque, tre metri. Teneva d'occhio, intanto, sullo sbocco del viale Aventino, il punto di raccolta dove aveva convocato gli amici.
La battaglia ebbe altri alti e bassi, pause di minuti e furiose riprese. Alle 15,10 Raffaele si portò di nuovo al bar e telefonò alla madre, per tranquillizzarla: si scusò di non essere rientrato la
notte, la rassicurò che tutto andava bene e le promise di tornare prima di sera. Dovette interrompere più volte il discorso, per tappare il microfono con la mano, perché la madre non si accorgesse
degli spari.
La madre udí lo stesso i colpi. E non lo vide tornare, la sera. L'indomani mattina, il padre dott. Giulio telefonò in casa del col. Di Pierro: gli rispose il cap. Vannutelli e gli riferí che, alle
ore 14 del 10 settembre, il comando del 1° Granatieri aveva dovuto trasferirsi da porta San Paolo e che, da quel momento, il colonnello e lui stesso avevano perso di vista il Ten. Persichetti.
Notizie piú recenti il dott. Giulio poté avere, lo stesso giorno, dal giornalista Attilio Battistini che si era trovato a San Paolo durante tutto il corso della battaglia e, dopo le 14, aveva
riconosciuto Persichetti: "Ho visto Raffaele," disse, "lanciarsi allo scoperto e soccorrere i feriti di viale Giotto, per portarli in un punto piú riparato. La sua giacca era macchiata del loro
sangue."
Quella sera, si presentò a casa Persichetti un granatiere in borghese, che si accingeva a lasciar Roma e voleva aver notizie del ten. Persichetti, a fianco del quale aveva combattuto fin verso le 15
del giorno prima.
Solo la mattina di lunedí 13 settembre, i familiari appresero il fatto. Narra il padre, che vide la salma di Raffaele, accanto a quelle di altri sei militari, nella sala mortuaria dell'ospedale del
Littorio: "Sull'abito borghese indossava le giberne, la baionetta mancava dal fodero, da cui appariva come strappata. Raffaele era spirato per ferite da arma automatica alla regione temporoparietale
sinistra e mastoidea destra."
Era stato massacrato, insomma. Ma era morto bene. Ed era morto bene anche perché non aveva fatto in tempo a conoscere che, nell'ora stessa in cui egli spirava a San Paolo, con la sua baionetta
strappata dal fodero, una piccola nave da guerra che si chiamava "Baionetta" gettava le ancore nel porto di Brindisi, dove portava in salvo il re, il principe, il maresciallo capo del governo e
l'alto Comando italiano al completo.
Dopo il '45, Grazzano Monferrato é stata ribattezzata Grazzano Badoglio. Riteniamo che non avremo mai occasione di andarci.
Qualche volta passiamo, invece, per una strada romana, che é come se non esistesse perché fa tutt'uno con piazza di Porta San Paolo e piazzale Ostiense : non c'è un portone, non un numero di
telefono. C'è, nei pressi, un piccolo brutto giardino, quasi sommerso nel traffico di tram, autocarri, macchine che transitano senza sosta e di centinaia di persone che corrono sempre, verso le
fermate o la stazione da dove partono i treni per Ostia.
Le sere d'estate, quando i treni scaricano folle di bagnanti, anche quel giardino é attraversato da comitive di ragazze e di giovani, che indossano strane camicie colorate, pantaloni attillati,
shorts e brandiscono, come fossero armi, pinne, maschere subacquee e certi ordigni che sembrano proprio fucili, con un tridente che sporge dalla canna. Passano in fretta, abbrustoliti dal sole,
allegri, vocianti e si lasciano dietro un profumo di salsedine.
Li, qualche volta, su una panchina, ci riesce di restar soli con Raffaele a scambiare due parole, a dargli le ultime notizie. Quel posto, che non sembra neppure una strada, si chiama appunto -
nessuno lo sa - "Via Raffaele Persichetti (n. il 12 maggio 1915 - m. il 10 settembre 1943 - M. d'O. alla memoria)."
Ruggero Zangrandi: “1943: 25 luglio – 8 settembre”, Giangiacomo Feltrinelli Editore 1964