ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma
ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma

I SAVOIA NELLA BUFERA PARLANO I TESTIMONI

di Giorgio Pillon

Tratto dal sito “www.reumberto.it”

 

Alle ore 18,10 di mercoledì 8 settembre 1943 un'Alfa Romeo militare, proveniente da Via Veneto, dopo aver percorso la breve salita di via XXIV Maggio, entro nel palazzo del Quirinale passando dal portone che si spalanca di fronte ai Dioscuri. I corazzieri di servizio resero gli onori militari perché le sentinelle avevano tempestivamente segnalato la macchina; era quella di Umberto di Savoia. Infatti sul parafango sinistro dell'auto sventolava il gagliardetto azzurro con la corona reale, emblema del Principe ereditario, mentre su quello destro garriva un altro gagliardetto, quello di maresciallo d'Italia: quattro stelle d'oro su campo azzurro.

Quel giorno l'ampio cortile d'onore del Quirinale era insolitamente pieno di macchine, tanto che il sergente maggiore Cozzani, che era al volante, dovette compiere un largo giro per trovare un posto dove parcheggiare. Scendendo dalla sua Alfa, Umberto di Savoia osservò, rivolgendosi al suo autista: «Cozzani, non ti preoccupare, lascia pure la macchina qui, tanto ce ne andremo presto», poi il Principe si avviò verso l'ascensore seguito dai suoi due ufficiali di ordinanza, i maggiori Campello e Litta. Giunto al secondo piano, prima di entrare nel suo appartamento, Umberto congedò i due ufficiali non senza aver raccomandato «Cercate di essere facilmente reperibili. Torneremo ad Anagni in serata».

Umberto di Savoia risiedeva ad Anagni da appena una settimana. Dal 2 settembre, infatti, egli aveva trasferito li suo comando da Sessa Aurunca in quest'altra località distante non più di sessanta chilometri dalla Capitale e celebre per lo schiaffo che Guglielmo di Nogaret, cancelliere di Filippo il Bello, diede con la mano inguantata di ferro, al vecchio pontefice Bonifacio VIII.

Quel trasferimento non era stato dettato da necessità militari ma era stato consigliato dalla piega sempre più tragica che andavano assumendo gli avvenimenti sotto l'incalzante pressione del nemico già profondamente penetrato nel nostro territorio dopo i riusciti sbarchi in Sicilia e in Calabria. Da Anagni Umberto di Savoia avrebbe dovuto dirigere le operazioni militari che vedevano impegnate tre armate, tutte teoricamente ai suoi ordini, la quinta comandata dal generale Caracciolo, la settima alle dipendenze del Duca di Bergamo e i resti della sesta, che un tempo era stata l'armata di Roatta, in Sicilia.

In realtà il Principe di Piemonte era sempre stato, suo malgrado, un comandante simbolico, sin da quando la guerra era stata dichiarata. Con la scusa che la sua vita era preziosa, e le superiori esigenze imponevano determinati movimenti ed iniziative, egli era stato volutamente tenuto all'oscuro da ogni disegno operativo, tanto per ordine di Mussolini quanto per tacito consenso dei vari Capi di Stato Maggiore generale che si erano succeduti nella carica dal 10 giugno 1940, dal giorno, cioè, della nostra entrata in guerra.

A tale proposito potremmo raccontare decine di episodi gravissimi. Ci pare però che il più significativo sia questo che ci è stato narrato da una persona che divise per lunghi anni le stesse ansie, le stesse preoccupazioni di Umberto, in quotidiano contatto e in lunga devota dimestichezza. Ci spiace non poter rivelarne il nome, impegnati come siamo a rispettarne l'incognito.

 Un giorno Umberto di Savoia ordinò al generale Gamerra, suo primo aiutante di campo, di convocare alcuni alti ufficiali (Gamerra è morto da alcuni anni senza lasciare - se le nostre informazioni sono esatte - un diario o un memoriale, come invece si sono affrettati a pubblicare altri che pur ebbero minore occasione di essere testimoni di avvenimenti storici).

Si era nel marzo del '41 e le nostre cose non avevano ancora preso quella piega disastrosa che dovevamo in seguito registrare. Il Principe, dunque, aveva deciso - nella sua qualità di comandante di un gruppo di armate - di chiamare a rapporto alcuni generali che erano alle sue dirette dipendenze. Aveva perciò ordinato a Gamerra di convocare tra gli altri, anche il generale Roatta, comandante la VI armata di stanza in Sicilia.

 Gamerra però gli aveva fatto notare che proprio il giorno prima aveva incontrato Roatta a Roma.  «Ma come », aveva osservato il Principe, « Roatta non è a Partinico? E che cosa è andato dato a fare a Roma? ».

 «Mi ha detto», aveva riferito con non lieve imbarazzo il generale Gamerra «che Mussolini lo ha nominato Capo di stato maggiore dell'Esercito. Credo anzi che questa sera la radio darà la comunicazione ufficiale».

Era vero. Al Principe era stato tolto un generale d'armata, non solo, ma questi lo si era nominato Capo di stato maggiore dell'Esercito. Nessuno aveva sentito il dovere di informare Umberto di Savoia, il più direttamente interessato di quella nomina.

Né questo, come abbiamo detto, è l'unico episodio dei genere. Il più paradossale però - e il più tragico - ha una data precisa e altrettanto precisi responsabili. L'8 settembre 1943 Umberto di Savoia capitò a Roma per caso.

La Storia non e fatta di supposizioni, di «se» di «ma» , però non è azzardato dire che il destino d'Italia sarebbe stato un altro se quel pomeriggio il Principe Ereditario invece di partire per Roma avesse preferito fare un giro nel settore della quinta armata, come già aveva fatto due giorni prima, quando era capitato a Orte senza che il generale Caracciolo ne attendesse la visita.

Perché l'8 settembre Umberto di Savoia andò a Roma? Nessuno lo ha mai spiegato. Non ne accenna Badoglio nel suo libro L'Italia nella Seconda Guerra Mondiale, non ne fa menzione Guariglia nelle sue memorie, né registra l'avvenimento il generale Puntoni nel suo discusso e polemico libro Parla Vittorio Emanuele. Nello svolgere questa nostra indagine che ci ha portato ad avvicinare non meno di cinquanta persone, tutte in un certo senso protagoniste di quel fatale 8 Settembre, noi non abbiamo mancato di cercare di chiarire questo episodio tutt'altro che secondario. Ebbene  nessuno degli interpellati ha saputo spiegare l'improvvisa venuta del Principe a Roma. Tutti sono stati concordi nell'affermare questa stupefacente verità: il Principe ereditario arrivò in Quirinale non chiamato da nessuno.

Perché allora aveva sentito il bisogno di lasciare temporaneamente Anagni?

 Il Principe si sentiva sempre più messo da parte. Il due settembre, commentando con il suo ufficiale di ordinanza le voci di un prossimo sbarco del nemico sul Continente (com'è noto questa azione cominciò alle ore 4,30 del 3 settembre nelle zone dì Reggio Calabria, Villa San Giovanni, Palmi e Melito), egli aveva osservato con infinito sconforto: «Odioso questo senso di attesa impotente». Più tardi aveva aggiunto amaramente: «Ormai per conoscere le notizie sugli ultimi avvenimenti non ci resta che ascoltare il giornale radio».

Eppure da molte parti si insisteva perché Umberto di Savoia uscisse dal suo isolamento, anche a costo di prendere posizione contro il Sovrano. Il 4 settembre il Principe aveva ricevuto Baratono, sottosegretario alla Presidenza. Era questo un antico prefetto, onesto e senza peli sulla lingua. Baratono aveva, iniziato il colloquio osservando: «Altezza Reale è necessario che Sua Maestà abdichi. Solo Vostra Altezza può ancora salvare il salvabile». Identica richiesta ma presentata con maggiore tatto e sottile diplomazia, era stata rivolta tempo prima dal colonnello Rossi Passavanti, decorato di due medaglie d'oro, conquistate rispettivamente nella prima e nella seconda guerra mondiale. Rossi era stato ricevuto in qualità di capo della assistenza militare. In realtà il colonnello godeva l'assoluta fiducia del Re, del capo del Governo e del Principe, come identica fiducia gli era sempre stata accordata anche da Mussolini. Era divenuto, insomma, per dirla con parole sue, «il confessore di tutti», anche perché ritenuto giustamente come una persona fidata, riservata scrupolosissima.

Rossi Passavanti, dunque, riferì al Principe di aver visto poche ore prima il cardinale Pizzardo. L'illustre prelato gli aveva detto: «Vorrei che Sua Altezza Reale sapesse che il Santo Padre é in trepida attesa di una sua mossa ». Umberto di Savoia aveva sorriso tristemente e aveva commentato: «Che posso fare, mettermi contro il Re? ».

Ma ben altro amaro sfogo noi potremmo riferire, in merito a quel colloquio. Rossi Passavanti però è muto come una tomba. Non parla, non solo, ma ha di proposito distrutto tutti i suoi appunti, perché (ci ha detto testualmente l'eroico ufficiale, oggi Presidente di Sezione della Corte dei Conti) «le confidenze che mi sono state fatte dal Re, da Mussolini dal Principe e da centinaia di altre personalità devono restare eternamente segrete».

Isolato da tutti, nella impossibilità di prendere parte attiva agli avvenimenti che ogni giorno andavano sempre più a precipizio, Umberto di Savoia cercava in tutti i modi di avere notizie , di rendersi esattamente conto di quello che stava succedendo. Ma finiva sempre, suo malgrado, col cozzare davanti a un muro. Per questo quando poteva correva a Roma. Qui egli riusciva, di tanto in tanto, a sapere quello che nessuno avrebbe mai pensato di dirgli.

Il 5 settembre andando a messa in una chiesetta di campagna vicino ad Anagni, aveva casualmente incontrato il maresciallo Graziani che abitava nei dintorni, ormai al di fuori della vita politica e militare. Graziani gli aveva detto con le lacrime agli occhi: «Altezza Reale, questa é la sua ora». Poi Graziani due giorni dopo, il 7 settembre, verso le ore 19, aveva di nuovo cercato il Principe. Fu forse quel colloquio a far decidere la breve corsa a Roma, il giorno successivo?

E' molto probabile, perché Graziani raccontò al Principe che «qualcuno» gli aveva riferito che erano in corso trattative per un armistizio con gli alleati. Si tratta di voci, aveva osservato Umberto di Savoia. «A me non risultano vere».

Eppure dal tre settembre il generale Castellano aveva firmato a Cassibile, in nome di Sua Maestà il Re, l'armistizio. A Roma quel  segreto era conosciuto da almeno venti persone.

Raffaele Guariglia, allora ministro degli Esteri, confessa nelle sue memorie di aver comunicato la notizia non solo ad alcuni membri del Governo ma anche ad altri tre suoi amici, all'ambasciatore italiano in Francia, a Salvatore Contarini e al cardinale Maglione. L'armistizio era noto inoltre ai tre ministri delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), ai loro segretari particolari, al ministro della Real Casa Acquarone, al colonnello Valenzano, segretario e parente di Badoglio, al figlio dello stesso maresciallo Mario, ai generali Ambrosio, Roatta Carboni, ai loro rispettivi ufficiali addetti. Insomma due sole persone erano state tenute di proposito all'oscuro di tutto, il Principe di Piemonte e il Primo aiutante di campo generale del Re il generale Paolo Puntoni.

Umberto di Savoia arrivò dunque l'8 settembre in Quirinale per cercare di controllare quanto gli aveva riferito Graziani. Puntoni, invece, capitò perché dalla finestra del suo studio aveva osservato uno strano via vai di macchine nel cortile d'onore. Per quanto fosse sempre stato in quotidiano contatto con Il Re, nulla gli era stato detto dal Sovrano di quello che era stato deciso a Cassibile.

Eppure il segreto era stato abbastanza bene mantenuto. Però aveva finito nei giorni 6, 7 e 8 settembre con l'essere bisbigliato un po' dappertutto.

Il 3 settembre, durante la riunione dei ministri al Quirinale, Badoglio aveva firmato un importantissimo telegramma. Era diretto agli Alleati e confermava la nostra accettazione dell'armistizio, inoltre rinnovava l'assicurazione che al generale Castellano (nostro inviato in Sicilia per concludere le trattative con il generale Smith capo di stato maggiore di Eisenhower) erano stati effettivamente conferiti i pieni poteri per la firma del documento. Così il generale Castellano aveva potuto, quello stesso giorno, siglare l'armistizio. Intanto a Roma Badoglio, Roatta, Ambrosio e Carboni seguitavano a rimanere tranquilli, sicuri come erano che gli Alleati avrebbero reso noto l'armistizio non prima del giorno 12 settembre.

Invece alle ore 17,30 del giorno 8 Eisenhower mandava un telegramma a Badoglio per imporre al nostro Governo di rendere pubblico l'armistizio entro le ore 20. In caso contrario non sarebbe stato più valido il documento firmato da Castellano.

Era un grosso pasticcio. Badoglio avvertì subito il Re e contemporaneamente convocò dal Sovrano i ministri della Guerra, della Marina, dell'Aeronautica, nonché pochi altri ufficiali generali. All'ultimo momento venne mandato a chiamare anche Guariglia, ministro degli Esteri. Appena Badoglio vide (l'episodio ci è stato raccontato proprio da Guariglia) disse concitatamente: «Siamo fregati! E adesso chi ci salverà dai tedeschi?».

Si tenne subito un frettoloso Consiglio della Corona. Alcuni di fronte al la minaccia di sicure rappresaglie tedesche, avrebbero voluto non riconoscere più come valido l'armistizio, altri invece sostenevano il contrario. Il Re infine decise: «Oramai non é più possibile cambiare rotta. L'armistizio deve essere accettato».

Mentre venivano prese queste risoluzioni così gravi, il Principe di Piemonte, ignaro di tutto, stava nel suo appartamento. Nessuno aveva pensato di avvertirlo che a pochi passi da lui si stava tenendo il Consiglio della Corona. A portargli la notizia dell'armistizio fu il maggiore Campello, suo ufficiale di ordinanza. Campello l'aveva captata » Proprio allora nell'ufficio del Maestro delle Cerimonie, don Ascanio Colonna.

 Umberto sussultò, sgranò gli occhi e chiese: «Ma é Proprio Vero?» Poi riprendendo il dominio su di sé, aggiunse: «Grazie, Campello. Mi chiami Acquarone». Così dal ministro della Real Casa il Principe ereditario ebbe conferma di un avvenimento già noto in tutto il Quirinale.

Verso le 19,30 Umberto di Savoia chiamò ancora il suo ufficiale dì ordinanza. «Si tenga pronto», gli disse, « perché fra poco rientreremo ad Anagni. Gli altri andranno ad alloggiare al ministero della Guerra. Anche le loro Maestà, passeranno la notte laggiù. Pare», concluse Umberto con la voce velata da tristezza, «che vi sia in via XX Settembre un rifugio più sicuro. A me però questa trasferimento in massa sembra una vera e propria buffonata».

Dieci minuti più tardi Umberto aveva di nuovo chiamato Campello «Anche noi passeremo la notte al Ministero. Questi sono gli ordini del Re. Campello aveva soltanto risposto: «Devo avvertire il generale Gamerra e il maggiore Litta?». «Ma certo», aveva aggiunto Umberto.

Prima di lasciare il Quirinale il Principe aveva voluto telefonare al suo comando ad Anagni, a Orte al generale Caracciolo e a Cava dei Tirreni al duca di Bergamo.

Poco dopo le ore 21 la macchina del Principe entrò al ministero della Guerra dal cancello di via XX Settembre. I sovrani erano, già arrivati. il Re indossava l'uniforme, la Regina era vestita di nero. Portava una gonna che le arrivava sino ai piedi e un cappellino tondo. Anche Badoglio era già arrivato. Era in borghese. Si era appartato nel salotto del generale Sorice. Qui aveva consumato la cena. Aveva mangiato poco, una tazza di brodo, un po' di bollito, della frutta. Con lui erano il figlio Mario e il colonnello Valenzano. Ad un certo momento il vecchio maresciallo aveva chiesto alludendo al proclama da lui inciso in un disco nella sede dell' EIAR: «Come ho parlato? Con voce ferma, vero? ».

Tutti parevano subire gli avvenimenti. Solo Umberto di Savoia era irrequieto. Per lui era stata preparata una camera in fondo al corridoio, al primo piano. Ma il Principe non aveva affatto intenzione di riposare. Avrebbe voluto anzi verso le ore 22, parlare con Badoglio ma, il maresciallo era già andato a letto. « Mi vadu a doermi'» aveva detto Badoglio a Valenzano. Né la frase aveva meravigliato nessuno. Sotto questo aspetto Badoglio era un principe di Condé moltiplicato per mille. Cascasse pure il mondo, egli alle 9,30 di sera era sempre a letto. E guai a svegliarlo.

Un giorno - il 28 giugno del '40- il colonnello Valenzano aveva ricevuto lo verso le due di notte una comunicazione dal Superesercito. Si informava Badoglio, Capo di stato maggiore generale, che il maresciallo dell'Aria Italo Balbo era stato per errore abbattuto in volo dalla nostra contraerea. Valenzano era rimasto in forse (l'aneddoto ci è stato raccontato proprio dall'ex-segretario del maresciallo): dovevano o non doveva svegliare Badoglio? Doveva o non doveva interrompere quel sacro sonno?

Di fronte a un dubbio cosi amletico Valenzano aveva preso un'altra decisione; poiché Badoglio e Mussolini (entrambi in visita al Fronte occidentale) stavano in quel momento dormendo su di un treno militare, fermo in un binario morto, lui, Valenzano, aveva preferito svegliare Mussolini. Soltanto al mattino seguente aveva riferito la notizia a Badoglio.

A differenza dei suo capo del governo, il Re non si era ritirato nell'appartamento che era stato frettolosamente preparato per lui e per la Regina. Vittorio Emanuele continuava a rimanere seduto su un divano, accanto alla Sovrana. Era stanchissimo. Aveva gli occhi cerchiati più del solito: era stata quella una giornata piena di emozioni. Il Consiglio della Corona (una strana riunione dove erano state prospettate le idee più assurde) lo aveva sfinito. Ora, a pensarci, provava un'infinita amarezza. Lui, il vecchio re d'Italia, il vincitore di Vittorio Veneto, doveva starsene là su di un divano in attesa che qualcuno si decidesse a dirgli quello che sarebbe capitato. In quel memento l'unica persona che egli sentiva veramente vicina era la sua fedele compagna di tante ore serene e tristi, la Regina.

Più tardi, verso mezzanotte, ci fu finalmente una notizia tranquillizzante. Il generale Carboni arrivò al ministero della Guerra tutto indaffarato. Chiese subito di vedere il Re. «Maestà» gli disse, «la situazione si presenta favorevole. I tedeschi si stanno spostando verso il Nord. Io sono pronto, Maestà, a inseguirli ».

Il Re non rispose subito. Socchiuse gli occhi, poi disse lentamente: « E' proprio sicuro, generale? »

Carboni doveva aver avuto quell'infomazione da varie fonti. Appena un'ora prima aveva telefonato al ministero della Guerra un alto funzionario dell'Ambasciata tedesca. Aveva risposto uno degli ufficiali di servizio, il capitano Corradino Moncada. L'ambasciatore Rahn sollecitava la concessione di un treno speciale. Era bastata quella richiesta per dare il via a tutta una ridda di supposizioni più o meno ottimistiche.

Anche Umberto aveva avuto sentore di quella notizia. Ma non vi aveva dato eccessivo credito. Il giorno prima egli aveva ricevuto ad Anagni il generale Von Richthofen. L'udienza era stata, è vero, sollecitata una quindicina di giorni avanti, ma aveva subito assunto un signiticato particolare. Von Richthofen, dopo qualche preambolo, aveva cominciato a parlare male di Kesserling. Ad un certo momento aveva detto: «Se l'Italia tentasse di ottenere dagli Alleati una pace separata non v'è dubbio che Kesserling cercherebbe di mettere le mani sul Re a tutti i costi». Era un avvertimento? Il buon senso lasciava credere di si.

Inoltre il Principe aveva altri motivi per ritenere neri esatta l'informazione di Carboni. Già altre volte il capo del SIM aveva mostrato di non saper valutare gli avvenimenti e di non voler, di proposito, essere sincero. Pochi giorni prima era stato assassinato Muti. Anche il capo dei SIM aveva avallato la versione solita: «Muti aveva tentato di sottrarsi all'arresto; i carabinieri si erano visti costretti ad aprire il fuoco ».

 Umberto non si era accontentato di quelle spiegazioni. La morte di Muti lo aveva dolorosamente colpito. il Principe aveva cercato, per suo conto, di far luce su quel tragico episodio. Aveva mandato perciò Campello, suo ufficiale d'ordinanza, dal generale Sandalli, ministro dell'Aeronautica, alle cui dirette dipendenze era stato Muti. Sandalli era furibondo. Stimava profondamente Muti. Per questo, a prescindere dal suo passato politico, lo aveva voluto con sé, nella sua segreteria particolare. Sandalli dichiarò a Campello di aver ignorato l'ordine di arresto «Non avrei permesso una simile infamia», (aggiunse energicamente il ministro) e di non credere affatto alla versione ufficiale. (« Muti non era il tipo da scappare »).

 Dello stesso parere era stato anche Umberto. Ma che avrebbe potuto fare? Le cose avevano preso una determinata piega e sembravano sfuggire a tutti, tranne a pochi individui senza scrupoli. L'Italia andava a rotoli. Chi avrebbe potuto fermare il corso della catastrofe? Umberto di Savoia continuava ad essere scettico e scoraggiato, ma non deciso a subire passivamente gli avvenimenti.

Intanto al ministero della Guerra continuavano a giungere notizie contraddittorie. «Verso le due del mattino si cominciarono anche ad udire in lontananza i primi colpi di cannone. Si combatteva alla Magliana. I tedeschi. dunque, avevano tutt'altra intenzione che abbandonare Roma.

Un'ora più tardi giunse mia comunicazione del generale Cerica, comandante i reali carabinieri: la terza divisione di fanteria corazzata tedesca, accampata presso Bolsena, si era messa in moto verso Roma.

Da quel momento nessuno fu più in grado di controllare la situazione. Molti, anzi, cominciarono a perdere la testa. Finché Roatta decise di svegliare Badoglio. «Ormai», dichiarò il Capo di stato maggiore dell'Esercito, «non c'è più la minima probabilità di difendere Roma ». Ancora insonnolito, Badoglio passò in una stanza vicina dove trovò il principe Umberto, il generale Puntoni e Sorice. Qui Roatta illustrò la situazione: tutte le strade attorno a Roma erano controllate dai tedeschi. Solo la Tiburtina era libera. «Bisogna salvare le loro Maestà », dichiarò enfaticamente Roatta.

Badoglio impallidì. Egli viveva ormai nel costante timore di essere catturato dai tedeschi o ucciso in un attentato. Pochi giorni prima il generale Carboni gli aveva rivelato un complotto delle SS: si sarebbe cercato da parte germanica di sopprimere il vecchio Maresciallo. Di fronte a questa rivelazione Badoglio aveva mostrato un vero e proprio terrore. Aveva mandato Guariglia, ministro degli Esteri, dall'ambasciatore tedesco Rahn perché denunciasse il complotto. Rahn aveva decisamente smentito la notizia: «Quando si vuole sopprimere qualcuno», aveva osservato l'ambasciatore con voce sprezzante, «non lo si va dicendo in giro, lo si comunica all'interessato» .

Di parere diverso continuava ad essere Badoglio. Egli era convinto che i tedeschi avrebbero cercato in tutti i modi di farlo fuori. Per questo motivo appoggiò energicamente la proposta di Roatta che il Re e il Governo lasciassero immediatamente la Capitale. Anche il Principe ereditario approvò la decisione. Ma subito aggiunse: «Io rimango. La mia presenza nella capitale in questi momenti è assolutamente necessaria».

Intanto il generale Puntoni era andato a svegliare il Re. Badoglio nelle sue memorie si attribuisce anche questa iniziativa, ma ad avvertire il Sovrano di quanto stava succedendo toccò, com'era logico, al primo aiutante di campo generale.

Il Re rimase di sasso. In realtà il Sovrano aveva già preso in considerazione l'idea di abbandonare Roma. Il 28 luglio, subito dopo l'arresto di Mussolini, quando si temeva un colpo di mano dei tedeschi, Vittorio Emanuele aveva ordinato al generale Puntoni di predisporre tutto per una eventuale partenza da Roma: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del Re del Belgio », aveva detto. «Desidero mettermi in condizione di continuare ad essere il Capo dello Stato, arbitro della mia volontà e della mia libertà. Non ho nessuna intenzione di divenire una marionetta nelle mani di Hitler ».

Ma ora che tale evento si profilava in tutta la sua drammaticità, il Re non sapeva decidersi ad abbandonare la capitale. Badoglio ne "L'Italia nella seconda guerra mondiale" racconta che il Sovrano non mosse alcuna obbiezione all'idea di lasciare Roma. Ancora una volta il maresciallo falsa la realtà dei fatti perché il Re si lasciò convincere a fatica. Badoglio, inoltre, tace il drammatico colloquio che si svolse quell'alba del 9 settembre tra il vecchio Sovrano e il Principe ereditario.

Umberto tentò di non partire, cercò in tutti i modi di far capire al padre come la presenza di un membro della casa reale a Roma in quel momento, fosse necessaria, ma il Re tagliò corto, «Verrai con noi. E' un ordine ». Di quell'agitata alba del 9 settembre Umberto fu la vera vittima anche perché fu l'unico a osservare gli avvenimenti con sicurezza ed intuito, con lungimiranza. Che cosa sarebbe successo se dieci ore prima il Principe ereditario non fosse venuto a Roma? Che cosa sarebbe accaduto se egli fosse rimasto ad Anagni? Forse sarebbe stato svegliato alle 4 del mattino del 9 settembre e avvertito che i Sovrani stavano per lasciare Roma diretti a Pescara? Probabilmente li avrebbe seguiti? Difficilmente. Umberto aveva vicino a sé pochi ufficiali ma tutti giovani, tutti energici. Nessuno avrebbe osato consigliare al principe una partenza verso Pescara. Né egli avrebbe lasciato i suoi reparti alla deriva. Avrebbe anche lui agito come agì il conte Calvi, comandante la Centauro che, chiamato la notte dell'8 settembre al ministero della Guerra, rispose che egli avrebbe seguitato a rimanere con i suoi soldati. Né si mosse dal suo comando.

Quando alle 05,30 del mattino la macchina condotta dal sergente maggiore Cozzani lasciò il ministero della Guerra con a bordo il Principe di Piemonte e i suoi due ufficiali d'ordinanza Campello e Litta, il destino di Casa Savoia era deciso. Forse Umberto fu il solo a capirlo, Mentre la sua Alfa Romeo imboccava la Tiburtina, egli fu visto prendersi la testa fra le mani e udito sospirare disperatamente: «Dio, che situazione! ».

 

Eventi

Mostra "Vite di IMI".

E' aperta la mostra "Vite di IMI - Internati Militari Italiani". Si tratta di un'esposizione storico-didattica tesa ad illustrare la vita degli oltre 600mila militari italiani deportati e internati nei lager tedeschi e della loro “Resistenza senza armi”.

Tutte le info sul sito: http://www.anrp.it/mostra/01mostra.html

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