ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma
ROMA 8 SETTEMBRE 1943: La battaglia per Roma

Notte tra l'8 e il 9 Settembre.

« Sono appena passate le sei, qualche soldato, fermo sui marciapiedi davanti agli edifici del Ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta; ma gli altri, i più, restano come sono, berretto di traverso, viso torvo, mani in tasca. Annusano la fuga dei capi. »
(Testimonianza del Generale Giacomo Zanussi, ufficiale addetto del Capo di Stato Maggiore Mario Roatta)

 

 

Tratto da Corriere.it.

 

Re, ministri e generali, lo Stato in fuga.


I progetti di fuga, le riunioni al Quirinale, il tentativo di rinviare l'annuncio dell'Armistizio, il messaggio di Badoglio
Alle cinque della sera, l’ora fatale in cui Ignacio Sanchez, il torero di García Lorca, affronta la morte nell’arena, Vittorio Emanuele III comincia a prepararsi a lasciare Roma. È l’8 settembre 1943, un sereno mercoledì che prelude a un dolcissimo autunno, e il re ha 74 anni. Il ministro della Real Casa, Acquarone, ha telefonato che il Quirinale è ritenuto più sicuro di Villa Ada, meglio trasferirvisi. Sarà il primo passo di un itinerario peraltro previsto e destinato, nell’ipotesi, a concludersi in Sardegna, per sfuggire a una eventuale cattura da parte dei tedeschi. Si è pensato a tutto nel caso d’un abbandono della capitale: due cacciatorpedinieri dovranno prendere a bordo i sovrani e portarli alla Maddalena, beni e oggetti preziosi sono già in Svizzera, sedici milioni, per affrontare le prime esigenze, diciassette valigie per il viaggio, carte e documenti in una borsa. Alle 18.15 precise la Fiat 2800 dell’autista Baraldi varca il portone della reggia. Vittorio Emanuele ed Elena si ritirano nei loro appartamenti. Il preludio della fuga di Pescara è questo.
Ma gli avvenimenti precipitano ed è difficile dar conto in breve d’ognuno di essi. La cronaca segnala l'improvviso ritorno del sovrano a Villa Ada, come per un cessato allarme, e subito dopo l'altrettanto improvviso ritorno al Quirinale per un improvvisatissimo Consiglio della Corona. È ormai certo che Eisenhower annuncerà alla radio in serata la firma dell'armistizio da parte dell'Italia e coglierà di sorpresa governo e militari, impreparati all'evento e chissà perché convinti che l'annuncio sarebbe stato dato il giorno 12.
Sicché non hanno fatto nulla di quanto era previsto dagli accordi sottoscritti per fornire i mezzi richiesti dagli Alleati in vista del lancio su Roma di una divisione paracadutisti: e quando, la sera del 7, due ufficiali americani si erano presentati segretamente nella capitale per concordare le comuni iniziative, tutti sono caduti dalle nuvole. Il generale Carboni, comandante della difesa di Roma e delegato a riceverli, era a una festa; il capo di stato maggiore generale Ambrosio proprio quel giorno era a Torino per un trasloco; Badoglio era a letto dalle nove, Roatta cenava in famiglia e per quei due ospiti annunciatissimi era a disposizione soltanto un colonnello che non parlava inglese e un principesco banchetto con cui si sperava di addolcire la loro irritazione.
Alla fine arrivò Carboni, andarono tutti da Badoglio e lo svegliarono. Lui scese in vestaglia supplicando che si rimandasse ogni cosa, in quelle condizioni c'era il rischio d'un fallimento, i due americani spedissero per carità ad Eisenhower un telegramma di proroga, almeno per salvare i loro paracadutisti. Sia pur di malavoglia, il telegramma venne spedito e quella fu la prima delle sciagurate mosse del tragico balletto alla ricerca di una salvezza purchessia.
Il Consiglio della Corona vede seduti intorno al re il primo ministro Badoglio, il generale Ambrosio, Carboni, De Stefanis (per Roatta) e Puntoni, con i tre ministri militari, De Courten della Marina, Sorice della Guerra e Sandalli dell'Aviazione, più Acquarone e un giovane addetto di Ambrosio, il maggiore Marchesi. Comincia il re, annunciando la firma dell'armistizio e i ministri militari, sbalorditi, esclamano: «Armistizio? Noi veramente non ne sapevamo nulla».
Non ne sa niente nessuno, forse fingono, ma ormai è tardi per meraviglie e recriminazioni. Si spera solo che Eisenhower accetti la proroga, tutto dipende da lì: e quando il giovane maggiore Marchesi rientra annunciando che Eisenhower ha respinto ogni richiesta e proprio in quel momento da Radio Algeri sta dando l'annuncio dell'armistizio, perdono tutti la testa. Carboni propone di sconfessare la firma già messa, si dia la colpa a Badoglio dicendo che avrebbe agito all'insaputa del governo. Ambrosio è d'accordo, qualsiasi vergognosa trovata pur di non affrontare la reazione dei tedeschi, ai quali fino al mattino di quello stesso giorno il re aveva assicurato che la guerra continuava come aveva proclamato il 25 luglio (mentendo) il maresciallo Badoglio.
Solo all'intraprendenza dello sconosciuto Marchesi che fece osservare quanto ignobile fosse quella disperata ciambella di salvataggio in extremis, ricordando tra l'altro che gli Alleati avevano filmato la resa di Cassibile e conservavano tutti i documenti sottoscritti dagli italiani per sbugiardarci, si dovette se quei folli propositi furono accantonati e il re dicesse: «L'armistizio fu firmato e si deve onorare l'impegno. Si terrà la parola». A quel punto, ciascuno per sé e Dio per tutti. I sovrani passeranno al ministero della Guerra ritenuto più sicuro, altri li raggiungeranno alla spicciolata, ma ci si dimenticherà di avvisare i ministri e perfino quello degli Esteri, Guariglia, venne abbandonato a Roma. Badoglio andò alla radio a leggere il suo messaggio, aspettando pazientemente che finisse il programma di canzoni.
Nella notte accorre affannato Roatta a comunicare che i tedeschi stanno attaccando dovunque, hanno già preso Gaeta e Civitavecchia, bisogna lasciare subito la capitale e l'unica via libera è la Tiburtina che porta a Pescara. Bisogna partire subito e alle 4.50 del mattino del 9 settembre prende il via la carovana, con in testa l'auto del re, della regina e del generale Puntoni, poi le altre con Badoglio, gli aiutanti di campo e il principe Umberto che si vergogna della fuga e vorrebbe che almeno un Savoia restasse a Roma. Ma il padre gli ordina di seguirlo, S'at più at massu , se ti pigliano ti ammazzano, alludendo ai tedeschi.
Seguono valletti, cameriere, bagagli, autisti. Seguono, più tardi, i generali. Sul molo di Ortona, nella speranza di imbarcarsi sulla «Baionetta» col re, saranno duecento. Lo stato maggiore è stato sciolto, il comando supremo non esiste più: e nessuno che abbia avuto un moto di dignità, che abbia pensato che si sarebbe dovuto combattere anche se la causa era persa, e non abbandonare l'esercito al suo destino per salvare la pelle.
Il viaggio fu descritto come avventuroso, con soste all'aeroporto di Pescara, trasferimenti nell'ospitale villa della duchessa di Bovino a Crecchio in attesa dell'arrivo della corvetta «Baionetta» per portare la comitiva in salvo a Brindisi: con l'indegno assalto alla nave sul molo di Ortona da parte di fuggiaschi inferociti contro il re e Badoglio che li lasciavano a terra. Si imbarcarono solo in 59, gli altri abbandonarono automobili e bagagli e pensarono a mettersi in salvo in qualche modo.
Resta il mistero su quella fuga così oscura, su quella Tiburtina che non doveva essere controllata dai tedeschi e invece li vedeva transitare ininterrottamente. Le macchine reali furono fermate per tre volte dai tedeschi e sempre lasciate proseguire. Ogni volta si affacciava uno dei fuggitivi e diceva «Ufficiali generali». Bastava per passare. Il viaggio sulla «Baionetta» fu seguito momento per momento da un ricognitore della Luftwaffe, dal quale furono scattate le fotografie che mostrano i reali seduti tristemente a poppa. Ce n'era abbastanza per sospettare che quel «trasferimento» fosse stato concordato con Kesselring, la salvezza dei sovrani e del governo in cambio dell'abbandono di Roma?
Fu lo storico Ruggero Zangrandi il primo ad avanzare questa ipotesi, quando nel dopoguerra alla testa delle istituzioni erano tornati proprio coloro che erano fuggiti al momento del pericolo. Allora la sua tesi fu considerata eretica e ingiuriosa, Zangrandi fu trascinato in tribunale, condannato e diffamato al punto di concludere la vita col suicidio. Al quale concorsero certamente le amarezze patite e il discredito riversato su di lui. Oggi molti cominciano a credere che forse qualcosa di vero in quella sua tesi poteva esserci, anche se mancano le prove «accademiche» del suo asserto. Da tempo il viaggio reale verso Pescara ha cessato di essere definito «trasferimento» e si parla apertamente di fuga, pur se c'è chi si ostina a ritenerla necessaria per mantenere in territorio non occupato dai tedeschi (ma pure sempre dagli Alleati) quanto restava delle istituzioni.
Però all'alba del 9 settembre, viaggiando in affanno sulla Tiburtina, alle istituzioni non pensava nessuno. E quando, finita la guerra, una speciale Commissione giudicò i responsabili della mancata difesa di Roma, non si trovò un solo colpevole e tutto finì in assoluzioni e reintegri nelle carriere. Per molti, anche negli stipendi. Arretrati compresi.


Silvio Bertoldi

La corvetta Baionetta
Il Castello di Crecchio.

Tratto da www.corriere.it

 

IL PARERE DI SERGIO ROMANO

 

Ma parliamo anche della gente che non si schierò.


Il significato di una ricorrenza cambia con il passare del tempo. Per molti anni la commemorazione dell'8 settembre servì soprattutto a ricordare i sotterfugi della monarchia, il cinismo di Badoglio, l'opportunismo degli alti comandi, la tragedia delle truppe abbandonate a se stesse e il coraggio di coloro che scelsero di combattere nella Resistenza. Poi venne la fase in cui si capì che l'Italia era stata travolta, dopo l'8 settembre, da una sanguinosa guerra civile e che occorreva cercare di comprendere anche le ragioni degli «altri». E più recentemente, grazie soprattutto al presidente della Repubblica, la commemorazione è stata estesa con maggior calore a quelle formazioni militari che non esitarono a battersi contro i tedeschi, da Porta San Paolo a Cefalonia. Ciascuna di queste fasi corrisponde a un momento diverso della storia politica italiana degli ultimi sessant'anni e ne riflette indirettamente l'evoluzione. Accanto ai resistenti delle brigate partigiane vi sono ormai, sul palco delle celebrazioni, anche i «ragazzi di Salò» e persino quelli che furono sprezzantemente definiti, per molto tempo, «badogliani». Mai il detto famoso di Benedetto Croce («la storia è sempre contemporanea») si è rivelato altrettanto calzante. Mi chiedo se non sia ormai tempo di ricordare, in occasione di questo 8 settembre, un altro protagonista della società italiana a cui soltanto Renzo De Felice, nei suoi studi, dedicò attenzione: il popolo «attendista».
Disprezzati dagli uni e dagli altri, gli attendisti furono la maggioranza del Paese ed ebbero, piaccia o no, una notevole importanza nella società italiana dei decenni successivi. Comprendere le loro ragioni può servire a capire meglio la storia d'Italia.
Non tutti furono egoisti o codardi. Molti furono sconvolti da un avvenimento che rimetteva in discussione la loro vita e le loro scelte.
Erano stati fascisti, con vari gradi di consenso, perché Mussolini, nella loro percezione, aveva sollevato l'Italia dal marasma del biennio rosso, risanato i conti dello Stato, navigato con una certa perizia attraverso la crisi del 1929 e soddisfatto le loro ambizioni nazionali. Sapevano che la guerra perduta era una imperdonabile responsabilità del fascismo e che le cause della sconfitta risalivano alla degenerazione del regime negli anni precedenti: la retorica, le menzogne, la diplomazia velleitaria e rodomontesca, il culto del Duce, l'arroganza dei gerarchi, il conformismo diffuso e opprimente, l'alleanza con la Germania di Hitler. Ma videro nel campo antifascista partiti e uomini a cui essi attribuivano la crisi della democrazia parlamentare dopo la fine della Grande guerra. Quasi nessuno fra questi uomini e partiti sembrava disposto a riconoscere le proprie responsabilità. Anzi, tutti sembravano decisi a pronunciare una generale condanna sull'intero periodo trascorso fra il 1922 e il 1943. Quel giudizio coinvolgeva molti, troppi italiani: era la loro condanna.
Sono queste, in una parte importante del Paese, le ragioni dell'attendismo. Molti respinsero la prospettiva neofascista della Repubblica sociale, ma rifiutarono al tempo stesso di aderire a uno schieramento in cui videro immediatamente, con un ruolo determinante, un partito che era allora molto più antinazionale di quanto sia gradualmente divenuto con passare del tempo. Nel grande disorientamento di quel periodo le due scelte parvero egualmente inaccettabili. Commisero un errore? Forse.
Ma chi non fa uno sforzo per comprenderne le origini, ignora le ragioni degli attendisti e commette, se davvero desidera ricomporre l'unità del Paese, un errore ancora più grave.


Sergio Romano

Eventi

Mostra "Vite di IMI".

E' aperta la mostra "Vite di IMI - Internati Militari Italiani". Si tratta di un'esposizione storico-didattica tesa ad illustrare la vita degli oltre 600mila militari italiani deportati e internati nei lager tedeschi e della loro “Resistenza senza armi”.

Tutte le info sul sito: http://www.anrp.it/mostra/01mostra.html

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