« Sono appena passate le sei, qualche soldato, fermo sui marciapiedi davanti agli edifici del Ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta; ma gli altri, i più, restano come sono,
berretto di traverso, viso torvo, mani in tasca. Annusano la fuga dei capi. »
(Testimonianza del Generale Giacomo Zanussi, ufficiale addetto del Capo di Stato Maggiore Mario Roatta)
Tratto da Corriere.it.
Silvio Bertoldi
Tratto da www.corriere.it
IL PARERE DI SERGIO ROMANO
Il significato di una ricorrenza cambia con il passare del tempo. Per molti anni la commemorazione dell'8 settembre servì soprattutto a ricordare i sotterfugi della monarchia, il cinismo di Badoglio,
l'opportunismo degli alti comandi, la tragedia delle truppe abbandonate a se stesse e il coraggio di coloro che scelsero di combattere nella Resistenza. Poi venne la fase in cui si capì che l'Italia
era stata travolta, dopo l'8 settembre, da una sanguinosa guerra civile e che occorreva cercare di comprendere anche le ragioni degli «altri». E più recentemente, grazie soprattutto al presidente
della Repubblica, la commemorazione è stata estesa con maggior calore a quelle formazioni militari che non esitarono a battersi contro i tedeschi, da Porta San Paolo a Cefalonia. Ciascuna di queste
fasi corrisponde a un momento diverso della storia politica italiana degli ultimi sessant'anni e ne riflette indirettamente l'evoluzione. Accanto ai resistenti delle brigate partigiane vi sono ormai,
sul palco delle celebrazioni, anche i «ragazzi di Salò» e persino quelli che furono sprezzantemente definiti, per molto tempo, «badogliani». Mai il detto famoso di Benedetto Croce («la storia è
sempre contemporanea») si è rivelato altrettanto calzante. Mi chiedo se non sia ormai tempo di ricordare, in occasione di questo 8 settembre, un altro protagonista della società italiana a cui
soltanto Renzo De Felice, nei suoi studi, dedicò attenzione: il popolo «attendista».
Disprezzati dagli uni e dagli altri, gli attendisti furono la maggioranza del Paese ed ebbero, piaccia o no, una notevole importanza nella società italiana dei decenni successivi. Comprendere le loro
ragioni può servire a capire meglio la storia d'Italia.
Non tutti furono egoisti o codardi. Molti furono sconvolti da un avvenimento che rimetteva in discussione la loro vita e le loro scelte.
Erano stati fascisti, con vari gradi di consenso, perché Mussolini, nella loro percezione, aveva sollevato l'Italia dal marasma del biennio rosso, risanato i conti dello Stato, navigato con una certa
perizia attraverso la crisi del 1929 e soddisfatto le loro ambizioni nazionali. Sapevano che la guerra perduta era una imperdonabile responsabilità del fascismo e che le cause della sconfitta
risalivano alla degenerazione del regime negli anni precedenti: la retorica, le menzogne, la diplomazia velleitaria e rodomontesca, il culto del Duce, l'arroganza dei gerarchi, il conformismo diffuso
e opprimente, l'alleanza con la Germania di Hitler. Ma videro nel campo antifascista partiti e uomini a cui essi attribuivano la crisi della democrazia parlamentare dopo la fine della Grande guerra.
Quasi nessuno fra questi uomini e partiti sembrava disposto a riconoscere le proprie responsabilità. Anzi, tutti sembravano decisi a pronunciare una generale condanna sull'intero periodo trascorso
fra il 1922 e il 1943. Quel giudizio coinvolgeva molti, troppi italiani: era la loro condanna.
Sono queste, in una parte importante del Paese, le ragioni dell'attendismo. Molti respinsero la prospettiva neofascista della Repubblica sociale, ma rifiutarono al tempo stesso di aderire a uno
schieramento in cui videro immediatamente, con un ruolo determinante, un partito che era allora molto più antinazionale di quanto sia gradualmente divenuto con passare del tempo. Nel grande
disorientamento di quel periodo le due scelte parvero egualmente inaccettabili. Commisero un errore? Forse.
Ma chi non fa uno sforzo per comprenderne le origini, ignora le ragioni degli attendisti e commette, se davvero desidera ricomporre l'unità del Paese, un errore ancora più grave.
Sergio Romano