Dalla testimonianza del Ten. Franceschini.
Al calar della sera i combattimenti diminuirono di intensità. Incominciammo a ripiegare. Si ruppe così il contatto col nemico. Ci dirigemmo prima verso l’Ardeatina e poi verso l’Appia Antica.
Alcuni contadini ci rifocillarono come poterono, offrendoci dei meloni dei quali prima mangiammo il frutto e poi la buccia. Eravamo rimasti con poche munizioni. L’indomani (il giorno 10), schierati
sulle posizioni tenute dall’artiglieria contraerea posta a difesa della Capitale, sostenemmo un furioso combattimento, cercando di dosare molto bene le munizioni. I tedeschi non riuscirono a passare
e rinunciarono al tentativo. Rotto il contatto, considerate le scarse possibilità
che avevamo di continuare il combattimento specie per la mancanza di munizioni, fummo costretti a riprendere il ripiegamento, allo stremo delle nostre forze. Raggiungemmo così Santa Croce in
Gerusalemme e di qui, passando per San Giovanni in Laterano, verso mezzo giorno eravamo al Colosseo. Nel momento in cui entrammo negli abitati ci stupì e demoralizzò ulteriormente il constatare che
nessun segno di solidarietà ci venisse dalla popolazione. Avremmo tanto gradito qualcosa da mettere sotto i denti, che dalla sera del giorno 8 – salvo i meloni – non avevamo toccato cibo. Sul
Colosseo incominciammo subito a sistemare le nostre armi per quella che ormai avrebbe dovuto essere l’ultima battaglia, l’ultima resistenza. Disposi le mitragliatrici per battere nel modo più
conveniente le provenienze più probabili: via dei Trionfi (oggi via di San Gregorio), l’obelisco di Axum, Porta San Paolo, la zona cioè dove la lotta era più accanita. I tedeschi, accortisi della
nostra presenza sul vecchio monumento, non tardarono a concentrare il tiro su di noi.
Reagimmo solo col tiro delle nostre Breda che evidentemente fu ben diretto sull’obbiettivo, se dopo quel concentramento, che noi avevamo ritenuto fosse la “preparazione”, l’”attacco” non venne.
Nessuno di noi fu colpito dai proiettili tedeschi ma alcuni civili che cercavano riparo nei rifugi contraerei ivi esistenti, rimasero feriti. Sopraggiunse la sera. Le armi sembravano essere stanche.
Già le prime notizie di “radio gavetta” parlavano di armistizio, di “Roma città aperta”. Passammo la notte sempre in stato di allerta. All’indomani mattina si ebbe la conferma di quelle notizie e,
con essa, l’ordine di rientrare alla caserma di Via Lepanto. La mia previsione che su quel monumento avremmo condotto l’ultima resistenza, quella “ad oltranza”, non si avverò: questa volta mi
ero sbagliato! Ad ogni modo i combattimenti erano finiti senza che i granatieri si fossero arresi: l’onore delle armi era salvo, la tradizione della “vecchia Guardia” rispettata; una nuova pagina
della storia della Nazione, la “resistenza”, era stata aperta dalla loro tenacia iniziando così la via della “liberazione”. A piedi raggiungemmo la nostra caserma. Vi trovai il mio Comandante di
Compagnia, il Cap. Gran. Andrea Marini, al quale riferii – come avevo già fatto con il Comandante del Caposaldo – sulle perdite in uomini ed armi (ebbi la soddisfazione di riportare in Caserma tutte
le armi di reparto e le individuali), sul comportamento dei Granatieri e, naturalmente, sulla morte eroica del Gran. Gerevini. Considerato il particolare momento e lo sfacelo della Nazione, ritenni
assurdo fare delle proposte di ricompense al valore.
Dopo qualche giorno giunse l’ordine che il personale venisse posto in “licenza straordinaria illimitata senza assegni”. Con l’aiuto del cap. magg. Dondero Eraldo, furiere della 12a cp., provvidi a
preparare i fogli di licenza a tutti i Granatieri della Compagnia, a ripartire loro quel po’ di denaro messoci a disposizioni dal Comando del Reggimento e a salutarli singolarmente. Fu un saluto
molto commovente. Ci rendevamo conto che il Reggimento, almeno per il momento, si scioglieva. Volli abbracciarli uno per uno: era l’unico segno di riconoscimento del loro valore che mi era possibile
dare in quel momento così grave. Assolto questo compito non mi rimaneva che proseguire per la strada intrapresa. Una guardia tedesca alla porta della caserma non consentiva a nessuno, e
particolarmente a noi ufficiali, di allontanarsi armato. Di fronte alla materiale impossibilità di conservare la pistola, piuttosto che cederla loro, la smontai nelle singole parti componenti che
disseminai ai quattro venti dalle finestre della caserma stessa: da quel momento nessuno più l’avrebbe impugnata e tanto meno avrebbe potuto sparare contro di noi! Varcai quella soglia, che due anni
prima soltanto mi aveva veduto entrare, giovane sottotenente, nei ranghi del glorioso 1° Reggimento Granatieri di Sardegna. Al di là di quella soglia, dopo un periodo di clandestinità per sottrarmi
alla cattura, ripresi la guerra contro i tedeschi col Reggimento della Marina “San Marco”. Al termine della guerra rividi il T. Col. Felice D’Ambrosio, eroico Comandate del nostro Battaglione alla
difesa di Roma. Nella rievocazione di quegli avvenimenti del settembre ’43, appresi con stupore che ricompense al Valor Militare erano state concesse per quei fatti d’armi e che del Gran. Gerevini
Palmiro nessuno si era ricordato!